8 marzo: non bastano gli auguri, serve occuparci concretamente del lavoro delle donne

Secondo l’Istat, sono 1 milione e 300 mila le donne oggi a rischio occupazione, a causa di una crisi che investe soprattutto le posizioni lavorative cosiddette “fragili” (ovvero precarie) e i settori ad alta intensità di lavoro femminile. 440 mila i posti di lavoro femminili persi solo nel 2020. Numeri che non possono essere solamente annotati tra le statistiche dell’anno.

Non basta celebrare le conquiste delle donne, e poi ignorare questi dati o archiviarli come “inevitabile conseguenza della crisi”.

Serve invece assumersi la responsabilità di quei dati e imprimere una svolta strategica, audace e lungimirante sull’occupazione femminile. Serve aprire gli occhi su questo baratro occupazionale che sta modificando il mondo del lavoro. Che sta proiettando indietro il mondo del lavoro.

Dove è finito l’obiettivo fissato dai regolamenti europei e contenuto nei documenti di programmazione dei fondi europei in Italia, che fissava al 60% il tasso di occupazione femminile al 2010? Quando nei documenti mettiamo dei target da raggiungere, perché poi nessuno vigila che siano stati effettivamente raggiunti e che non restino solo cifre segnate sui fogli? Perché vengono ignorate le valutazioni di impatto che sono proprio alla base del negoziato per i fondi?

Oggi – ben 11 anni dopo il 2010 – il tasso di occupazione femminile in Italia è del 48,5%, ben 16 punti sotto la media europea. E con una differenza notevole tra Nord e Sud Italia. E non c’entra solo la crisi economica susseguente la pandemia.

Se parliamo di Piano di Ripresa e Resilienza che serva a costruire una “next generation”, ovvero una generazione futura, non possiamo che partire da questi dati e varare una strategia concreta a breve, medio e lungo termine che lavori esattamente su questi divari di opportunità lavorativa prima e di occupazione concreta poi. Che lavori su questa “fragilità” del lavoro. Puntando davvero a rendere il lavoro delle donne resiliente, resistente cioè agli urti di una crisi.

Bisogna lavorare su come rimuovere gli ostacoli all’accesso al mondo del lavoro, alla permanenza in occupazione delle donne, alla valorizzazione delle competenze, alla progressione di carriera sino al conseguimento anche di posizioni apicali e ruoli decisionali (e non soltanto nominali). E bisogna farlo agendo contemporaneamente su 3 fronti: istruzione e formazione; welfare di cura; cultura imprenditoriale delle donne.

Il primo versante riguarda i gap formativi delle ragazze rispetto i coetanei maschi e riguarda la formazione nei settori che maggiormente garantiscono opportunità di sviluppo occupazionale come i settori STEM (discipline che guardano alla transizione digitale ed ecologica). Ma riguarda anche l’educazione finanziaria delle donne.

Il secondo deve puntare allo spostamento del peso del lavoro di cura dalle donne al welfare di stato ed al riequilibrio degli oneri dentro i nuclei familiari, al fine di rimuovere le cause di abbandono anche volontario del lavoro o di mancato reinserimento delle donne dopo il primo figlio. Lavoro e scelta di maternità devono diventare due variabili indipendenti. Questo significa investire in infrastrutture sociali e servizi per la sanità, assistenza e l’educazione della prima infanzia. Ma anche agire per riconoscere e retribuire il lavoro di cura delle donne, sottraendolo a diventare un tempo improduttivo dal punto di vista occupazionale.

Il terzo asse riguarda un investimento mirato a sostegno dell’imprenditoria ed al lavoro professionale femminile ed agendo anche per intervenire sul miglioramento dell’accesso al credito e sulla creazione di una cultura all’auto-impiego, ma anche predisponendo servizi di tutoraggio aziendale e orientamento specialmente nei settori legati alle nuove professioni emergenti.

In ultimo, ma è il punto più importante se davvero vogliamo che le risorse del Recovery Fund intervengano a colmare il divario di genere che hanno le pari opportunità come “opzione strategica” fondante, serve che diventi prassi la valutazione dell’impatto di genere come pratica per valutare in modo oggettivo, a sostegno del decisore pubblico, se e quanto una misura impatta “concretamente” nel modificare la situazione e quanto sia invece solo una bandiera posta a presidio di un tema da convegni e poi nessuno si preoccupa di verificarne il conseguimento dei target. Come quel dato del 2010 da cui siamo lontani ancora anni luce….o forse anni bui.

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