Blitz antimafia nel trapanese, 13 fermati: ci sono i fedelissimi di Messina Denaro

Nuovo blitz antimafia della Polizia in provincia di Trapani: 13 persone sono state fermate, gli indagati sono 20. Coinvolti nel blitz alcuni presunti mafiosi molti dei quali vicini al boss latitante Matteo Messina Denaro. I 13 provvedimenti di fermo sono stati emessi dai magistrati della Dda di Palermo. Le accuse sono, a vario titolo, associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso.

Tra gli arrestati figura un operaio della Forestale, Nicola Pidone, che viene indicato come l’uomo di riferimento della mafia a Calatafimi e che è il personaggio chiave dell’inchiesta della Dda di Palermo. Pidone avrebbe organizzato summit di mafia in una dependance fatiscente vicina alla sua masseria dove venivano assunte le principali decisioni che riguardavano il clan.

Ma insieme ai mafiosi ci sono anche imprenditori e manager: tra i fermati, ad esempio, c’è anche Salvatore Barone, ex presidente dell’azienda trapanese dei trasporti e presidente della cantina sociale Kaggera di Calatafimi: a lui viene contestata l’associazione mafiosa.

Venti gli indagati tra i quali anche il sindaco di Calatafimi Antonino Accardo, accusato di corruzione elettorale ed estorsione: sarebbe stato lo stesso Barone a procurargli pacchetti di voti.

Tra gli indagati anche altri condannati per mafia come Rosario Leo, pregiudicato che vive a Marsala, e cugino di Stefano Leo, molto vicino al boss di Mazara del Vallo Vito Gondola e a Sergio Giglio, coinvolto nell’inchiesta sui favoreggiatori del capomafia Matteo Messina Denaro. Tra coloro che favorivano gli incontri e le comunicazioni c’era il 46enne imprenditore agricolo Domenico Simone. Fermati anche l’imprenditore Leonardo Urso, di origini marsalesi, enologo, accusato di favoreggiamento, e l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, di origini agrigentine, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver assunto fittiziamente Pidone per far figurare l’esistenza di una regolare posizione lavorativa e attenuare la misura di sicurezza.

Secondo gli inquirenti, il clan controllava il territorio ricostruendo episodi criminosi avvenuti in zona e non “autorizzati” e interveniva con atti intimidatori nei confronti di chi collaborava con la giustizia. In quest’ultimo ambito si inquadrerebbe l’incendio dell’auto dell’imprenditore Antonino Caprarotta, voluto da Pidone e realizzato insieme a Giuseppe Aceste e Antonino e Giuseppe Fanara. Caprarotta aveva denunciato l’imprenditore mafioso Francesco Isca ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione illecita dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi-Segesta.

Tra i fermati anche Giuseppe Gennaro, altro esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi, accusato, oltre che di associazione mafiosa, anche di aver rubato un trattore agricolo, nell’interesse del clan, insieme a Francesco Domingo, Sebastiano Stabile e Salvatore Mercadante. In cella anche il trentasettenne calatafimese Ludovico Chiapponello, indagato per aver favorito l’associazione mafiosa bonificando dalle microspie la depandance di Pidone.

Indagato inoltre un appartenente alla Polizia Penitenziaria, a cui è contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio commesso per agevolare Cosa Nostra. Dall’inchiesta è emerso che il clan aveva la disponibilità di armi. Il fermo è motivato dall’intenzione di alcuni indagati di darsi alla latitanza e al progetto di pesanti ritorsioni verso uno dei mafiosi che sarebbe entrato in conflitto col capo della famiglia di Calatafimi.

L’indagine è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessì e Piero Padova.

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