Burocrazia difensiva e mancanza di cultura della responsabilità. Li Calzi: “Freno allo sviluppo”
La Pubblica Amministrazione deve essere acceleratore della crescita economica e sociale, catalizzatore della ripresa, e non invece, come oggi viene percepita, freno allo sviluppo. Nella pratica ci scontriamo con una burocrazia che non mostra ancora adeguata attitudine alla cultura della responsabilità.
Siamo però sicuri che il problema sia la burocrazia e non il sistema? Questa auspicata, necessaria, assunzione di responsabilità si scontra infatti con quella che viene detta “burocrazia difensiva”. La burocrazia difensiva è quell’atteggiamento che guarda alle norme non guardando al risultato finale ma alla mera esecuzione di un procedimento. Senza alcuna cultura dell’innovazione e demandando la semplificazione all’esterno. Ma soprattutto rimandando ad altri l’assunzione di responsabilità e le sue conseguenze. Con il risultato di non procedere. A pagare il conto sempre imprese e cittadini.
La burocrazia difensiva è il dirigente pubblico che non si assume le proprie responsabilità e non onora quell’indennità di trattamento aggiuntiva legata proprio al risultato. È burocrazia difensiva pretendere un doppio canale digitale, ma anche cartaceo per i documenti, perché “melius abundare”. È burocrazia difensiva consumare diversi passaggi procedimentali, arricchiti dalla richiesta di pareri (non vincolanti) prima di prendere una decisione e poi comunque rimandarla alla politica e non far nulla se non si ricevono esplicite direttive che manlevano, ovvero scaricano da ogni conseguente responsabilità. È burocrazia difensiva non interfacciare le basi di dati già in possesso del sistema pubblico, ma chiedere ai cittadini informazioni che l’amministrazione ha già (vedi ad es. iscrizione ai nidi). È burocrazia difensiva allungare i tempi dell’entrata in vigore di una riforma perché è meglio non essere i primi e orientarsi a vedere come la applicano ‘gli altri’. E’ burocrazia difensiva dire “si è sempre fatto così”.
È burocrazia difensiva non rischiare, non scegliere. Complicare. La burocrazia “a difendere” non solo esiste ma sta crescendo: le misure di snellimento delle procedure burocratiche e dei comportamenti difensivi degli ultimi anni non sono evidentemente riuscite a porre un freno. Gli interventi di riforma legate alla semplificazione di procedure e norme, alla qualità dei servizi, alla riduzione dei tempi, alla maggiore trasparenza dell’azione amministrativa, alle performance della Pubblica Amministrazione, non sembrano avere dato gli esiti attesi. E soprattutto non hanno sbloccato i meccanismi difensivi. Davanti a norme di semplificazione che si sono aggiunte a quelle esistenti, come il decreto n. 76 del 2020, senza dirimere con certezza il quadro normativo, l’atteggiamento difensivo è aumentato ed i tempi dei procedimenti non sono diminuiti.
Sia chiaro, il giudizio non è sulle persone (la pubblica amministrazione è piena di efficientissimi civil servant, funzionari e dirigenti pubblici che svolgono in modo mirabile il loro lavoro). È la macchina che non funziona. Ciò che attiva gli atteggiamenti di burocrazia difensiva è infatti anzitutto la mancanza di comprensione del senso strategico del proprio lavoro, la mancanza di adeguati piani di formazione, un valido sistema di valutazione dei risultati che incentivi l’assunzione di responsabilità e soprattutto guardi al risultato, cioè al problema “risolto” e non al numero di passaggi procedimentali effettuati.
La mancanza di conoscenza del senso strategico del proprio lavoro sembra poi avere una connessione logica con altri tre elementi individuati come cause degli atteggiamenti di burocrazia difensiva: la frammentazione delle responsabilità, la demotivazione e il fatto che il proprio lavoro non abbia un importante valore e un riconoscimento a livello sociale. Non si può ridurre la riflessione sulla responsabilità alla sua dimensione erariale o penale, ma occorre estenderla all’accezione “respons-abilità”, ovvero la capacità di dare una risposta.
Se da un lato le misure di depenalizzazione proposte possono alleggerire la paura della firma, contemporaneamente occorre che si sappia che per fare il dirigente pubblico servono anche (e soprattutto) competenza, determinazione e coraggio. Non certamente il coraggio di rischiare le proprie libertà individuali, ma il coraggio di guardare ai bisogni e ai risultati, di immaginare soluzioni che vadano oltre il “si è sempre fatto cosi”, di mostrare alla politica i rischi ma anche le opportunità, di tentare strade nuove. Ma anche la capacità di costruire alleanze, con altre pubbliche amministrazioni, col privato, col terzo settore.
Responsabilità e coraggio sono le competenze di public leadership che devono essere messe al centro delle modalità di selezione e di sviluppo di una classe dirigente ‘di valore’, che possa concretamente interpretare e valorizzare il termine di “burocrazia a servizio della collettività”. Senza le quali a prevalere sarà sempre la mala burocrazia. Quella che non ci possiamo più permettere. Che non se la può permettere un Paese che deve affrontare una stagione impegnativa di ripresa e sviluppo.
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(*) l’autrice, docente universitario di Leadership, è stata per anni dirigente pubblico, civil servant, responsabile del sistema di valutazione investimenti pubblici della Regione Siciliana e prima ancora del controllo strategico.
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