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Depressa ricorre a suicidio assistito, la Procura di Catania chiede il dissequestro dei beni

Il 27 marzo scorso una donna di 47 anni della provincia di Catania ha fatto ricorso al suicidio assistito in una clinica in Svizzera.

Su questa vicenda la Procura del capoluogo etneo ha presentato ricorso al Tribunale del riesame, presieduto da Sebastiano Mignemi, sull’annullamento, disposto dal Gip, del sequestro dei beni della donna.

La donna non era malata terminale ma da tempo soffriva di una grave forma di depressione. Sul caso la Procura ha aperto un’inchiesta, senza indagati, per istigazione al suicidio.

Nel ricorso si sottolinea che “dai primi elementi di indagine appare assai dubbia la sussistenza dei requisiti richiesti per il suicidio legalmente assistito praticato anche per l’ordinamento svizzero, ossia ‘patologia incurabile, handicap intollerabile o dolori insopportabili, debitamente certificati’ alla luce della certificazione medica rilasciata alla donna e delle patologie alla stessa diagnosticate”.

La Procura ricorda anche che la legislazione elvetica considera reato il “fine egoistico, come quello finalizzato ad appropriarsi dei beni materiali di chi viene istigato o aiutato al suicidio”. E i magistrati di Catania vogliono chiarire la “qualità di socia” della donna dell’associazione svizzera che ha praticato l’eutanasia alla quale ha pagato 7.000 franchi, circa 6.200 euro, per assisterla nel suicidio.

C’è un altro punto su cui la Procura di Catania, come scrive nella richiesta avanzata al Tribunale del riesame, vuole fare piena luce: “la donna si era iscritta ad una associazione italiana che si occupa di pratiche finalizzate alla cosiddetta ‘morte dignitosa’ con la quale sembra abbia avuto contatti telefonici, il cui ruolo di eventuale rafforzamento del  proposito suicida è ancora da valutare in tutti i suoi aspetti”.

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