Via D’Amelio, Di Matteo: “Non credo che la strage sia solo di mafia”. E sull’agenda rossa…

E’ stato il giorno di Di Matteo al processo di Caltanissetta sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Di Matteo, ora consigliere del Csm, ex pm del pool che indagò sulla morte del giudice Borsellino e della scorta ha deposto in aula e ha affermato con sicurezza che “nè io nè altri miei colleghi parlammo con Scarantino, nelle pause degli interrogatori, di fatti relativi alle indagini”. Una lunga deposizioni, ricca di affermazioni “forti”.

Di Matteo rispondendo alle domande dell’aggiunto Gabriele Paci, ha ricordato i giorni in cui per la prima volta, nel 1994, sentì Scarantino a Genova. “Non ci furono pause durante quegli interrogatori e lo ricordo bene perché a un certo punto era necessario per Scarantino rifocillarsi e io non gli consentii di uscire, chiedendo di portare dei panini nella stanza in cui eravamo. Ci mettemmo in due angoli diversi e mangiammo e mentre eravamo lì pensavo: ‘sto mangiando nella stessa stanza con chi ha detto di aver partecipato a un fatto per cui io ho pianto amaramente'”.

“Indagai a fondo sulla presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio dopo la strage – ha detto Di Matteo -. Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”. Contrada era il numero due del Sisde. Anni dopo fu processato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

“Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. I poliziotti aveva fatto una relazione che poi era stata strappata in questura. I colleghi avevano preso a verbale Sinico e mandato tutto a Caltanissetta, dove Sinico si era rifiutato di rivelare la sua fonte. Si avviò una indagine molto spinta sui Servizi Segreti. Io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere che poi si decise a fare il nome della sua fonte che indicò in Roberto Di Legami, funzionario di polizia. Di Legami negò tutto. Rinviato a giudizio fu poi assolto”.

“Seppi delle note della Boccassini e delle sue osservazioni critiche sulla gestione del pentito Scarantino solo tra il 2008 e il 2010. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.

“Io indagai sull’agenda rossa di Borsellino fin dal primo momento – ha proseguito Di Matteo -. Come pure indagai sul Sisde, per questo mi indigno quando si parla di inerzia investigativa. Noi su Vincenzo Scarantino abbiamo dato un giudizio di attendibilità assai limitata. Perché nel cosiddetto processo Borsellino ter nemmeno lo abbiamo messo in lista testi e nel processo bis sulla strage nei confronti degli imputati tirati in ballo solo da lui abbiamo chiesto l’assoluzione. Valutazione che fu condivisa dai giudici del primo grado. Poi furono condannati in appello ma lì non so cosa accadde. Cioè, noi dicemmo che da un certo punto in poi Scarantino aveva cominciato a inquinare il quadro probatorio”, ha aggiunto “rivendicando” comunque le condanne definitive, oltre 30, ottenute in due processi sulla strage costata la vita al giudice Borsellino e alla scorta.

“All’epoca delle indagini sulle stragi – ricorda anche Di Matteo – i collaboratori di giustizia vedevano nell’ufficio del pubblico ministero il luogo a cui rivolgersi per risolvere problemi spesso logistici. In quel periodo mi è capitato che mi chiamassero Mutolo e Cancemi ma nessuno si è mai sognato di dirmi cose inerenti alle dichiarazioni. L’attività di preparazione dei collaboratori di giustizia significava solo dare indicazioni ad esempio sul contegno da tenere in aula, sull’evitare polemiche coi legali, questo era preparare ed era una prassi seguita da tutti”.

“Ebbi il sospetto che l’inverosimile progressione nelle dichiarazioni di Scarantino fosse dovuta alla sua intenzione di essere smentito. Era un collaboratore problematico, la cui attendibilità non era scontata e l’attività di intercettazione che iniziammo era dovuta proprio all’esigenza di capire se poteva essere oggetto di pressioni e contaminazioni visto che aveva accusato un parente. Vorrei far presente, però, che la vicenda Scarantino era un tassello di una attività molto più complessa che riguardava le indagini su Bruno Contrada, quelle successive su Dell’Utri e Berlusconi. Tutte cose che poi hanno pesato e pesano sulla mia vita anche familiare”, ha aggiunto. “Noi Scarantino lo abbiamo usato in pochissime cose. I dubbi c’erano, si dibatteva, anche a prescindere dalla nota della Boccassini. Lo intercettammo proprio per quello”.

“Non credo che la strage di via D’Amelio sia solo di mafia – ha continuato Di Matteo –. Il depistaggio cominciò con la scomparsa dell’agenda rossa” di Borsellino. E le indagini sul diario del magistrato partirono già il 20 luglio del 1992, il giorno dopo l’attentato. E’ chiaro che l’agenda rossa di Paolo Borsellino è sparita e non può essere sparita per mano di Graviano. Il mio impegno era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”.

Imputati di calunnia aggravata i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, che facevano parte della squadra di investigatori che condusse l’inchiesta. Secondo l’accusa, avrebbero costruito una verità di comodo sulla strage, imbeccando falsi pentiti come Vincenzo Scarantino, costringendoli a mentire e ad accusare persone che non avrebbero avuto un ruolo nell’attentato. Per il depistaggio sono indagati a Messina anche due pm dell’epoca: Anna Palma e Carmelo Petralia. Anche loro, come i poliziotti, rispondono di calunnia aggravata.

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